Fenicotteri rosa
C’è posto a fianco del coraggio per chi, per coraggio, a fianco a sé non ha voluto nessuno?
Era mia moglie. Lo era molto prima della malattia quando la sua malattia era un’altra, più subdola, contro la quale ha sempre combattuto e sempre ne è uscita sconfitta. Abbiamo tentato, ci siamo nascosti, ingannati, impegnati, traditi. Ma poi, usurati, ci siamo lasciati.
Un giorno quei nuovi dolori, i crampi allo stomaco, il vomito, la spossatezza. “Smettila di fare la scena e cambia abitudini!” dicevano. Era vero, avrebbe dovuto vivere con maggiore attenzione, più regola, orari, pasti come si deve e niente extra. Non è riuscita a farlo e ancora dolori, ancora minimizzazioni.
Ma voleva cambiare vita e quel cambiamento un giorno prese un nome: Sardegna. Sarebbe andata a vivere accanto all’amica della scuola, lontana dai posti e dalle persone che l’avevano fatta ammalare. Il suo sogno: il mare turchese da una parte e la laguna con i fenicotteri rosa dall’altra. E quel dolore sempre lì in mezzo alla pancia…
Finalmente un’ecografia: “C’è qualcosa: per sicurezza farei una TAC”. Programma tutto e fa l’esame richiesto, ma i preparativi fervono: vende la casa e qualche mobile, sistema il resto. Già sistemato anche l’appartamento a Cagliari e il biglietto di sola andata. Presenta la lettera di licenziamento: un taglio netto.
Arriva il giorno. Ormai è tutto pronto. La sera precedente cena d’addio con tutti i colleghi: le sue ultime foto, sorridente. Il referto della TAC non lascia speranze: tumore metastatico del pancreas di cui pochi sapranno. Un colpo duro da ricevere, lei lo sa, è del mestiere. Si riparte da lì, per ora la Sardegna aspetterà. La aiutano i colleghi che ora le sono a fianco. Io no, ricevo poche notizie indirettamente dai nostri figli che vivono per proprio conto, tutte più o meno confortanti. “Non dite niente ai miei figli: devono fare la loro vita!”
Finché non la ritrovo nel mio reparto, ricoverata, dopo un paio di mesi di notizie tutto sommato positive (“Aspettiamo la biopsia"... “Mamma si sente meglio: ha ripreso ad uscire con le vecchie amiche”, “Ci sta pensando nonna”…).
Sono confuso. Vado a trovarla e la trovo nel suo letto col sacchetto del catetere appeso, una flebo al braccio e una coperta che non segue il profilo del suo addome, ma altro: l’ultima volta che l’avevo vista in un letto d’ospedale con quella pancia era stato quasi trent’anni prima, ma doveva partorire nostra figlia…
La morfina la ottundeva un po’, ma era serena, faceva anche qualche battuta. Poi si assopiva respirando rumorosamente e risvegliandosi ricominciava con i suoi discorsi sempre meno connessi. Aspettava di poter fare la biopsia, diceva, e rimandava a quel momento ogni decisione. Ci organizzammo per le notti. Poche. Diventò presto soporosa, parlava con difficoltà, impastata. Le mani seguivano le sue allucinazioni a occhi chiusi. Qualche frase senza senso. Un sorriso. Poi all’improvviso un momento di lucidità, si gira e mi guarda, presente: “Ma parliamoci chiaramente: quanto mi resta?”. Non lo sappiamo, nessuno lo sa. Faccio accorrere i nostri figli che non capiscono il motivo di tutta quella fretta. “Procederemo alla sedazione profonda per i suoi dolori”: con me non li aveva mai lamentati, ma evidentemente li accusava. Il giorno seguente era ormai assopita senza possibilità di risvegliarsi. Respirava irregolarmente, a fatica. I ragazzi erano là, increduli. I genitori sopraffatti. “Smettila di lottare: riposati…” la implorava suo padre.
Poi torno a casa. Mi telefonano: “Se n’è andata”. Quando non ero al suo fianco.