Tredici anni fa, 2007, ero io. Caduto nel bel mezzo dello show: 37 anni, da 16 mesi sposato con Lara e da 6, padre di Ilaria. Tumore al testicolo. Rimosso. Chemio. Anni di controlli, lacrime e paure, speranze e risposte – signor Donati, con questa ultima TAC finiamo il periodo di follow-up – non lo dimentico quel giorno, il giorno in cui divenni un sopravissuto al cancro.
Tredici anni dopo, 2020. La mammografia mostra un’ombra. L’ecografia conferma. Prelievo, esame istologico. Tumore alla mammella. Stavolta è Lara.
Ricevo io il referto; è inequivocabile anche per me, che non sono medico. Un buio mi offusca la vista. Sono in macchina, mi fermo. Accosto. Mi manca il fiato, mi gira la testa. Mi sembra impossibile. Si ferma il tempo. Lei, la mia roccia. Lei, il mio faro. È illogico, è innaturale. Ai miei occhi Lara è invulnerabile. Io, sono io quello fragile, quello che si ammala. Questo non ha senso. Lara malata. Non ha senso. È un incubo. Di nuovo, l’incubo. Rileggo il referto. Mi trema la mano. Mi sento perso, solo, angosciato. Ma è tutto vero. Lara ha un tumore.
La trovo nel garage di casa, mi guarda, cerco le parole, ma lei capisce prima che io apra bocca; il suo volto è cupo. Anche il mio. Si getta verso me, mi abbraccia, è spaventata. Le dico che ci sono speranze, che dobbiamo subito parlare con un ginecologo, prepararci per l’operazione. E poi...
E poi... E poi Lara, la vita cambierà. Avremo un nuovo prima e un nuovo dopo. Daremo un nuovo senso al tempo. Continueremo il nostro viaggio insieme, credimi. Come coppia, come genitori dei tre figli che ora abbiamo, come amici dei nostri amici, come fratelli, come figli. La vita impone un cambio. Abbracciami, vieni qui. Tieniti a me. Ci arriviamo Lara, ci arriviamo là dove stavamo andando. Insieme. È una strada più tortuosa, più complessa, faticosa. Tieni duro. Io ci sono. Anticipo i suoi stati d’animo, le sue paure, le ansie, i dubbi. So che scivola nel vuoto, dentro un luogo buio e viscido, sola. Senza la forza per provare a rallentare la discesa; senza unghie per aggrapparsi. Un vuoto che la inghiotte. Che non le lascia speranze, senza futuro, solo il presente, che fa paura. So che è sola nel suo corpo che si prepara per la lotta. Sola nel silenzio, e se qualcuno chiama, per sapere come sta, non sa cosa dire. È oltre il bene o il male. Una zona vuota. Un tempo rarefatto, nel quale uscire e partecipare allo scorrere indifferente del mondo la disturba. È incapace. Vorrebbe solo chiudersi su se stessa come un bozzolo, come un cucciolo. Che nessuno la veda, così nessuno soffre. Sparire, fuggire, scappare.
Io so, la guardo e sorveglio su di lei. Cammino avanti a lei, la guardo e la proteggo. Mi occupo di lei: che in fondo, cosa più semplice e bella non c’è. Se cade, la raccolgo; se piange, la consolo. Se cammina, l’accompagno. Tra analisi, dottori, attese disperate, parole incomprensibili.
Tu sei il mio angelo custode – dice. Le accarezzo il viso e vedo in lei la forza. E la paura.
Intanto la mia barba bianca cresce; ho messo anche io una maschera. La notte arriva a spegnere la luce. Così sprofondo anche io nel vuoto: prego un Dio al quale non so credere, ripenso alle parole che ho sentito, alle speranze che ci hanno dato, alle cose che passo dopo passo avvengono. Nel buio cerco la mia strada. Senza maschera però. Raccolgo le mie forze. Riposo. Domani ricomincia la battaglia.
Fino a quando fuori comincia a filtrare un’altra luce, nuova, vera: è l’alba. L’alba di un giorno nuovo per stare ancora insieme. L’alba di un tempo nuovo che abbiamo ricevuto. Un’alba che ha un gusto nuovo, fresco. Come di sopresa. Di mistero. Di grazia.