Le due parole più belle
Dopo la chemio, arrivare alla macchina è sempre difficile. Lo è sempre di più, mano a mano che i cicli si susseguono e lasciano il loro carico tossico nel suo corpo. Questa volta, però, è diverso. Perché lei sembra camminare quasi sulle uova, con le ginocchia leggermente piegate. Ha un passo svelto e dolente. La fretta di sedersi? O forse la voglia di andare via da quel posto, da quegli odori? Solo lei sa quanto è diventata sensibile agli odori. Le apro lo sportello della macchina, lascio che si metta comoda. Poi chiudo la portiera cercando di fare meno rumore possibile e vado al posto di guida. Per fortuna, per tornare a casa, sono solo pochi chilometri. Nella sfiga, siamo stati fortunati. Una terapia sperimentale per il triplo negativo non metastatico in un centro non lontano da casa.
Niente viaggi della speranza, per noi. E un’oncologa che sa il fatto suo.
«Come ti senti?», le chiedo.
«E come vuoi che mi senta?», mi dice lei.
«Come al solito?», chiedo di nuovo.
«Ogni volta un filo peggio», fa lei.
Mi sorride. E io penso che senza quel sorriso io sarei già morto. Ogni volta che qualcuno mi dice di invidiare la mia forza nello starle accanto, io devo rispondere sempre la stessa cosa: se lei non fosse così determinata, io non sarei in grado di aiutarla. A volte mi viene da pensare che sia lei ad aiutare me. Io, sofferente di ipocondria, ansia cronica, attacchi di panico, non sono mai stato così disinvolto e leggero nell’occuparmi di ogni cosa. Non sono più depresso. Non ho più dubbi sulle mie capacità. Non guardo più al domani. Vedo solo l’adesso.
«E ora che facciamo?», dico io.
«E che cosa vuoi fare? Andiamo a casa», mi risponde lei.
Ancora non ho imparato a non fare domande cretine. Ma lei ha imparato a riderci sopra. E infatti mi sorride. È magra. È pallida. Ha occhiaie profonde. Ma mi sorride nonostante le labbra screpolate. Ha un cappello sistemato sopra una cuffia. Non ha mai voluto mettere una parrucca. Quando ha iniziato a perdere i capelli glieli ho rasati a zero. E poi mi sono rasato anche io.
«Oggi è giovedì», mi viene a mente, mentre faccio manovra per uscire dal parcheggio.
«E quindi?»
«C’è l’oroscopo di Brezsny su Internazionale». Abbiamo cominciato a leggerlo da quando si è ammalata. Ci piace perché a volte ci sono scritte frasi che sembrano parlare di lei. E quindi di noi.
«Hai ragione», dice lei. «Quando arriviamo a casa lo leggiamo».
«Chissà che ci dice oggi, con quello che è successo», dico io.
Lei non risponde, mi sorride.
«A proposito: vuoi che chiamiamo subito gli altri o facciamo dopo?», le chiedo io.
«No, ti prego. Aspettiamo ancora un po’. Ho bisogno di lasciare decantare la cosa per un po’. Chiameremo con calma da casa», dice lei.
«Va bene», dico io. E guido. Ma non riesco a stare zitto. Non adesso.
«Mi è venuta in menta la frase di un film di Woody Allen», riprendo il discorso.
«Quale frase?», mi chiede lei.
«Credo che fosse in Hannah e le sue sorelle. A un certo punto lui crede di avere un tumore al cervello. Poi scopre di non averlo e quel punto fa: le due più belle parole che un uomo possa sentirsi dire non sono ‘ti amo’ ma ‘è benigno’».
Lei ride, anche se quegli spasmi tra stomaco e diaframma potrebbero darle nausea. Eppure si concede quella scheggia di buon umore. E mentre la spio con lo sguardo, guidando verso casa, mi sembra bellissima. Come non mai.
«Anche io ne conosco altre due che non sono niente male», mi dice. E poi prosegue: «quelle che mi hanno detto oggi dopo l’ecografia».
Sì, lo immaginavo.
Non le dice, ma io le conosco. Sono quelle pronunciate dalla dottoressa.
Inaspettate ma precise. E inequivocabili:
«Remissione completa».